Il coronavirus ha cambiato tante nostre buonissime abitudini; è stato portatore di nuove pratiche, per garantire al massimo la salute. Ciò ha influito anche sulle nostre abitudini di preghiera personale comunitaria.
Da ultimo i nostri vescovi hanno dichiarato come la distribuzione dell’Eucarestia in bocca sia ormai e per adesso, una pratica preibita. La regola attuale della chiesa, infatti, da alcuni anni, prevedeva ormai due modalità, a secondo della sensibilità del credente: sulla mano o in bocca.
Io la penso come Santa Madre Teresa di Calcutta che alla domanda di quale fosse la pratica migliore: se con la bocca o con la mano, rispose come la migliore maniera di ricevere Gesù fosse con il cuore. Capisco la preoccupazione e la prudenza dei nostri pastori e la condivido. Mi domando, però, se le nostre prudenze sanitarie, divenute esorbitanti con il coronavirus, siano in equilibro con la prassi sacramentale attuale nell’orientare il credente a ricevere il santo corpo di Cristo nelle migliori condizioni spirituali, per la santificazione della propria esistenza terrena e la partecipazione, così, alla vita eterna, nel aldilà. Quando vedo ormai quasi sparita ogni pratica catechista sulle condizioni minime richieste per potersi accostare all’Eucarestia, mi domando come la chiesa di sempre e molto prima, abbia avuto il tempo di riflettere su come combattere il virus del peccato e solo da alcuni anni una prassi superficiale d’individualista abbia fatto dimenticare il sostanziale interrogativo. Siamo difronte al paradosso di avere infinite regole per la salute del corpo e quasi nessuna per la salute dell’anima. Molte precauzioni per distribuire la comunione, quasi nessuna pe riceverla.
È vero che se aspetti ad essere santo la comunione non la farai mai, ma resterà pur sempre la differenza tra chi fa tutto il possibile e chi trascura ogni possibilità. La storia giudicherà come, per reagire al coronavirus, di tempo ne abbiamo avuto poco; ma perché abbiamo dimenticato il peccato e la sua gravità? Don Giorgio